Omelia di S.E. Mons. Maniago per l’Ordinazione Presbiterale di quattro giovani Diaconi

Carissimi fratelli e sorelle, stiamo vivendo un particolare momento di Grazia per la nostra Chiesa diocesana di Catanzaro-Squillace, ma in verità, per tutta la Chiesa. E il nostro cuore è colmo di stupore nel vedere come il Signore non si è stancato di servire il suo popolo scegliendo fra di noi persone, oggi Antonio, Gianluca, Mirko e Stefano, scelte per essere fra noi, strumenti del suo amore misericordioso.

 

In quest’ora nella quale Voi, carissimi Antonio, Gianluca, Mirco e Stefano, mediante il Sacramento dell’Ordinazione sacerdotale, venite introdotti come pastori al servizio del grande Pastore Gesù Cristo, è il Signore stesso che nel Vangelo ci parla del servizio a favore del gregge di Dio. L’immagine del pastore viene da lontano. Nell’antico Oriente i re solevano designare se stessi come pastori dei loro popoli. Nell’Antico Testamento Mosè e Davide, prima di essere chiamati a diventare capi e pastori del Popolo di Dio, erano stati effettivamente pastori di greggi. Nei travagli del periodo dell’esilio, di fronte al fallimento dei pastori d’Israele, cioè delle guide politiche e religiose, Ezechiele aveva tracciato l’immagine di Dio stesso come del Pastore del suo popolo. Dice Dio tramite il profeta: “Come un pastore passa in rassegna il suo gregge …, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine” (Ez 34, 12). Ora Gesù annunzia che quest’ora è arrivata: Egli stesso è il Buon Pastore nel quale Dio stesso si prende cura della sua creatura, l’uomo, raccogliendo gli esseri umani e conducendoli al vero pascolo. San Pietro, al quale il Signore risorto aveva dato l’incarico di pascere le sue pecorelle, di diventare pastore con Lui e per Lui, qualifica Gesù come l'”archipoimen” – l’arcipastore (cfr 1Pt 5, 4), e con ciò intende dire che si può essere pastore del gregge di Gesù Cristo soltanto per mezzo di Lui e nella più intima comunione con Lui. È proprio questo che si esprime nel Sacramento dell’Ordinazione: il sacerdote mediante il Sacramento viene totalmente inserito in Cristo affinché, partendo da Lui e agendo in vista di Lui, egli svolga in comunione con Lui il servizio dell’unico Pastore Gesù, nel quale Dio, da uomo, vuole essere il nostro Pastore.

 

Il Vangelo che abbiamo ascoltato in questa domenica è soltanto una parte del grande discorso di Gesù sui pastori. In questa breve pericope proclamata per questa nostra ordinazione presbiterale, il Signore ci illumina in modo significativo sulla figura del vero pastore e del rapporto che lo lega alle pecore. Vorrei invitarvi a lasciarvi toccare da queste parole perché saranno preziose per il vostro ministero: in particolare dovrete tenere presente che sarà difficile essere Pastore del gregge di Gesù se non saprete voi stessi vivere da veri discepoli del Signore, pecore del suo gregge. A questo riguardo sono particolarmente illuminanti i verbi utilizzati da Gesù in questo brano.

 

Innanzitutto Gesù dice che quanti lo seguono, cioè sono suoi discepoli, “ascoltano la sua voce”. Questo è l’atteggiamento di chi crede: egli crede perché ha ascoltato parole affidabili. È il primo passo che l’essere umano deve compiere per entrare in una relazione: ascoltare, che è molto più del semplice sentire. Ascoltare significa innanzitutto riconoscere colui che parla dalla sua voce, dal suo timbro particolare. Ci vogliono certamente impegno e fatica, ma solo facendo discernimento tra quelli che parlano è possibile ascoltare quella voce che ci raggiunge in verità e con amore. Tutta la fede ebraico-cristiana dipende dall’ascolto – “Ascolta, Israele!” (Dt 6,5; Mc 12,29 e par.) – e sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento “la fede nasce dall’ascolto” (fides ex auditu: Rm 10,17). Per avere fede in Gesù occorre dunque ascoltarlo, con un’arte che permetta una comunicazione profonda, la quale giorno dopo giorno crea la comunione. La seconda azione che Gesù presenta come propria delle sue pecore si riassume nel verbo seguire: “Esse mi seguono” (Gv 10,27). Materialmente ciò significa andare dietro a lui ovunque egli vada (cf. Ap 14,4), ma seguirlo anche conformando la nostra vita alla sua, il nostro camminare al modo in cui lui ci chiede di camminare. Il pastore quasi sempre sta davanti al gregge per aprirgli la strada verso pascoli abbondanti, ma a volte sta anche in mezzo, quando le pecore riposano, e sa stare anche dietro, quando le pecore devono essere custodite perché non si perdano. Gesù assume questo comportamento verso la sua comunità, verso di noi, e ci chiede solo di ascoltarlo e di seguirlo senza precederlo e senza attardarci, rischiando di perdere il cammino e l’appartenenza alla comunità. In questa condivisione di vita, in questo coinvolgimento tra pastore e pecore, tra Gesù e noi, ecco la possibilità della conoscenza: “Io conosco le mie pecore” (Gv 10,27). Certamente Gesù ci conosce prima che noi conosciamo lui, ci scruta anche là dove noi non sappiamo scrutarci; ma se guardiamo a lui fedelmente, se ascoltiamo e “ruminiamo” le sue parole, allora anche noi lo conosciamo. E da questa conoscenza dinamica, sempre più penetrante, ecco nascere l’amore, che si nutre soprattutto di conoscenza. Cuore a cuore, presenza dell’uno accanto all’altro, possiamo quindi dire umilmente: “Io e Gesù viviamo insieme”. Gesù è “il pastore buono” (Gv 10,11.14), certo, ma anche l’amico e l’amante fedele, potremmo dire: sentendoci da lui amati, conosciuti, chiamati per nome, penetrati dal suo sguardo amante, allora possiamo decidere di amarlo a nostra volta.

 

Che cosa attendere dunque da Gesù Cristo? Il dono della vita per sempre (cf. Gv 10,28) e quella convinzione profonda che siamo nella sua mano e che da essa nessuno potrà mai strapparci via (cf. Gv 10,28-29). Sì, la mano di Gesù: mano che ci tocca per guarirci; mano che ci rialza se cadiamo; mano che ci attira a sé quando, come Pietro affondiamo (cf. Mt 14,31); mano che ci offre il pane di vita; mano che si presenta a noi con i segni dell’aver sofferto per darci la vita (cf. Lc 24,39; Gv 20,20.27); mano che ci benedice (cf. Lc 24,50), tesa verso di noi per accarezzarci e consolarci. Ecco quella mano del Signore che più volte è stata dipinta tesa verso l’uomo, perché ognuno di noi per camminare ha bisogno di mettere la propria mano in quella di un altro, così come fra poco farete voi in modo significativo mettendo le vostre mani in quelle del Vescovo. Solo così non ci sentiamo soli e ci sentiamo non esenti da cadute o sventure, ma sempre sostenuti dal Signore, sempre in relazione con lui. Queste parole del Signore risorto – “Nessuno strapperà le mie pecore dalla mia mano, perché sono il dono più grande che il Padre mi ha fatto, il dono più grande di tutte le cose” – sono e restano, anche nella notte della fede, anche nelle difficoltà a camminare nella notte, ciò che ci basta per sentirci in relazione con il Signore. Se anche volessimo rompere questa relazione e se anche qualcuno o qualcosa tentasse di romperla, non potrà mai accadere di essere strappati dalla mano di Gesù Cristo. L’Apostolo Paolo, significativamente, ha gridato: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?” (Rm 8,35). No, niente e nessuno, “ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati” (Rm 8,37). E la mano di Gesù Cristo risorto è la mano di Dio, perché lui e il Padre sono uno.

 

Carissimi Antonio, Gianluca, Mirco e Stefano, se saprete alimentare e vivere il vostro rapporto con Gesù in questo modo, diventerete presenza del Buon Pastore in mezzo alla gente. Perché gli uomini, in fin dei conti, appartengono al Padre e sono alla ricerca del Creatore, di Dio. Quando si accorgono che uno parla soltanto nel proprio nome e attingendo solo da sé, allora intuiscono che è troppo poco e che egli non può essere ciò che stanno cercando. Laddove però risuona in una persona un’altra voce, quella del Signore, chi ci ascolta si rende conto che non parliamo di noi o di qualcosa, ma del vero Pastore con cui si può aprire una relazione feconda. Un rapporto inteso e vero con il Signore vi porterà a condividere la sua ansia pastorale che è di seguire gli uomini, di andare a trovarli, di essere aperti per le loro necessità e le loro domande. Vi spingerà a una conoscenza pratica, concreta delle persone a voi affidate, nello spirito della “conoscenza” che ci viene dal Vangelo: non c’è una vera conoscenza senza amore, senza un rapporto interiore, senza una profonda accettazione dell’altro. Il pastore non può accontentarsi di sapere i nomi e le date. Il suo conoscere le pecore deve essere sempre anche un conoscere con il cuore. Questo però è realizzabile in fondo soltanto se il Signore ha aperto il vostro cuore; solo se il vostro conoscere non lega le persone al vostro piccolo io privato, al vostro proprio piccolo cuore, ma invece fa sentire loro il cuore di Gesù, il cuore del Signore. Deve essere un conoscere col cuore di Gesù e orientato verso di Lui, un conoscere che non lega l’uomo a voi, ma lo guida verso Gesù rendendolo così libero e aperto, protagonista di vere comunità cristiane.

 

E solo conoscendo nella prospettiva del Buon Pastore che arriva a donare la vita per le pecore, saprete mettere al centro della vostra vita presbiterale l’Eucaristia, nella quale l’offerta sacrificale di Gesù sulla croce rimane continuamente presente, realmente tra di noi. E a partire da ciò dovete imparare che cosa significa celebrare l’Eucaristia in modo adeguato: è un incontrare il Signore che per noi si spoglia della sua gloria divina, si lascia umiliare fino alla morte in croce e così si dona a ognuno di noi. È molto importante per il presbitero l’Eucaristia quotidiana, nella quale si espone sempre di nuovo a questo mistero; sempre di nuovo pone se stesso nelle mani di Dio sperimentando al contempo la gioia di sapere che Egli è presente, mi accoglie, sempre di nuovo mi solleva e mi porta, mi dà la mano, se stesso. L’Eucaristia deve diventare per voi una scuola di vita, nella quale imparate a donare la vostra vita. La vita non la si dona solo nel momento della morte e non soltanto nel modo del martirio. Voi dovete donarla giorno per giorno. Occorre imparare giorno per giorno che non possediamo la nostra vita per noi stessi. Giorno per giorno dovrete imparare ad abbandonare voi stessi; a tenervi a disposizione per quella cosa per la quale Egli, il Signore, sul momento ha bisogno di voi, anche se altre cose sembrano più belle e più importanti. Donare la vita, non prenderla. È proprio così che farete l’esperienza della libertà. Proprio così, nell’essere utile, nell’essere una persona di cui c’è bisogno nel mondo, la vostra vita diventa importante e bella. Solo chi dona la propria vita, la trova.

 

Il Vangelo proclamato questa sera si conclude ricordandoci la sostanziale unità fra Gesù e il Padre: è facile leggere in queste parole un invito a fare del vostro ministero presbiterale un servizio all’unità della Chiesa e del genere umano. La missione di Gesù infatti riguarda l’umanità intera, e perciò alla Chiesa è data una responsabilità per tutta l’umanità, affinché essa riconosca Dio, quel Dio che, per noi tutti, in Gesù Cristo si è fatto uomo, ha sofferto, è morto ed è risorto. La Chiesa non deve mai accontentarsi della schiera di coloro che a un certo punto ha raggiunto e non può ritirarsi comodamente nei limiti del proprio ambiente. È incaricata della sollecitudine universale, deve preoccuparsi per tutti e di tutti. Questo grande compito in generale lo dobbiamo “tradurre” nelle nostre rispettive missioni. Ovviamente un presbitero, un pastore d’anime, deve innanzitutto preoccuparsi di coloro che credono e vivono con la Chiesa, che cercano in essa la strada della vita e che da parte loro, come pietre vive, costruiscono la Chiesa e così edificano e sostengono insieme anche il sacerdote. Tuttavia, dobbiamo anche sempre di nuovo – come dice il Signore – uscire “per le strade e lungo le siepi” (Lc 14, 23) per portare l’invito di Dio al suo banchetto anche a quegli uomini che finora non ne hanno ancora sentito niente, o non ne sono stati toccati interiormente. In questo servizio per l’unità, dovrete spendere la vostra vita, carissimi fratelli, curando l’unità interna della Chiesa e in particolare l’unità di quel presbiterio in cui entrate da oggi a far parte e che vi accoglie con gioiosa fraternità, senza dimenticare che, come insegna Gesù, l’unità si paga sempre con la Croce; solo se una, unita, la Chiesa, oltre tutte le diversità e i limiti, potrà essere segno della presenza di Dio nel mondo, segno di Colui che solo può offrire la salvezza desiderata e cercata da tutti, caricandoci sulle spalle e donandoci la vera pace.

 

La Chiesa antica ha riconosciuto nella figura del pastore che porta una pecora sulle sue spalle, l’immagine di Colui che si è incamminato per cercare chi si è smarrito; l’immagine di Colui che ci segue fin nei nostri deserti e nelle nostre confusioni; l’immagine di Colui che ha preso sulle sue spalle la pecora smarrita, che è l’umanità, e la porta a casa. È divenuta l’immagine del vero Pastore Gesù Cristo. A Lui ci affidiamo. A Lui affidiamo Voi, cari fratelli, specialmente in quest’ora, affinché Egli Vi conduca e Vi porti sulle sue spalle tutti i giorni; affinché Vi aiuti a diventare, per mezzo di Lui e con Lui, buoni pastori del suo gregge.

8 maggio 2022